La saturazione degli impianti e la necessità di una strategia, a partire dal packaging
La saturazione degli impianti di conferimento dei rifiuti, e in generale di un po’ tutto il mercato del settore, colpisce in particolar modo la plastica, che dapprima veniva valutata all’incirca 200 euro ogni tonnellata ma che ora non trova più nessuna destinazione di mercato. Tutte le realtà che operano nel processo di selezione e riciclo, infatti, continuano ad accumulare plastica pulita senza poi riuscire a rimetterla sul mercato e, come se non bastasse, spesso insieme a questa finiscono per ritrovarsi con un carico di rifiuti misti della differenziata che, a loro volta, non hanno trovato inceneritori o discariche pronti ad assorbirli. Un allarme, questo, che ha lanciato anche l’associazione confindustriale dei riciclatori parlando di “mancato ritiro degli imballaggi in plastica pressati dai Centri Comprensoriali”, denunciando una situazione che vede le aziende lavorare questo materiale per dargli un secondo ciclo di consumo senza però nessuno in grado di ritirarlo.
Per questo motivo la plastica che non viene direzionata negli inceneritori finisce per accumularsi all’interno dei riciclatori, in assenza di acquirenti del prodotto finito, e quindi rimane in balia di una situazione ad alto rischio di incidenti. Peggiore ancora la situazione in cui ad occuparsi della faccenda subentrano realtà malavitose, che spesso agiscono riempiendoci capannoni che poi vengono dati alle fiamme.
Il mercato secondario di plastica rigenerata che sta cercando di avviare l’Unione Europea, purtroppo, non garantisce ancora un’operatività in grado di contenere questa situazione. E così siamo arrivati ad un punto dove, secondo il vicepresidente di Utilitalia Filippo Brandolini, “non si tratta più di emergenze locali e regionali sui rifiuti indifferenziati, siamo di fronte ad una crisi generalizzata che riguarda sia i gestori dei rifiuti che il tessuto produttivo fino agli scarti dei materiali riciclati. Il recepimento delle direttive europee sul pacchetto per l'economia circolare, dovrà essere per l'Italia l'occasione per una strategia nazionale sulla gestione dei rifiuti, che individui azioni e strumenti”. Questo perché “gli impianti del mercato del riciclo sono strapieni: cartiere, impianti di trattamento e selezione della materia prima seconda, la plastica”, come ha confermato anche l’ad di Herambiente Andrea Ramonda.
“Le aziende manifatturiere stanno affrontando una crisi senza precedenti. Parliamo di imprese che fanno economia circolare, ma che sono in crisi perché non riescono a collocare lo scarto non riciclabile originato dalle loro attività. I costi per lo smaltimento dei rifiuti stanno diventando insostenibili (in alcune realtà sono più che raddoppiati negli ultimi 2 anni) e gli spazi si stanno esaurendo. Il Paese ha bisogno di impianti e infrastrutture, dobbiamo affrontare con le tecnologie più innovative e con l'informazione la sindrome nimby. Industria, ambiente e salute possono viaggiare nella stessa direzione. A Copenaghen è presente nel centro cittadino un termovalorizzatore che, oltre a non inquinare e produrre energia dai rifiuti a favore della città, dando corrente a 62.500 abitazioni e acqua calda ad altre 160mila, è dotato sul tetto anche di una pista da sci”, è il parere di Claudio Andrea Gemme, presidente del gruppo tecnico Industria e Ambiente di Confindustria, al quale si lega quello del direttore generale dell’Ispra Alessandro Bratti per il quale “è tutto tremendamente semplice, quando non si riescono a trattare e smaltire i rifiuti si bruciano”.
Mentre si ipotizzano soluzioni temporanee per arginare il problema in attesa di una gestione più strutturata e lungimirante, come ad esempio il “trovare ulteriori mercati di sbocco rispetto a quelli esistenti, ed in particolare le aziende dei Paesi dell’Est Europeo” (Roberto Romiti, Lamacart), o il creare urgentemente una serie di centri di stoccaggio temporaneo, quindi intervenire a valle del processo, da parte dei consorzi nazionali e con la supervisione del Ministero dell’Ambiente, come suggerito invece da Cisambiente per le imprese del Mezzogiorno, c’è chi sostiene con fermezza l’esigenza di “impianti di smaltimento che sarebbero anche centro di produzione di energia sana e pulita”, come ad esempio Lucia Leonessi, direttrice generale della Cisambiente Confindustria. La stessa direttrice, poi, ci spiega come “quanto accaduto nell’ultimo anno, con la raccolta di quantità inaspettate di rifiuti, soprattutto da superfici urbane grazie al comportamento virtuoso dei cittadini che hanno scelto la raccolta differenziata come vero e proprio stile di vita, è dovuto [proprio] a un fermo imprevisto di alcuni canali di smaltimento tale da creare la paralisi e costi immensi per il gestore degli impianti di trattamento dei rifiuti”.
L’unica certezza, considerando proprio questa saturazione completa di canali e mercato, è che si può e si deve intervenire a monte per far sì che i materiali non arrivino proprio al consumatore finale. E lo si fa attraverso, ad esempio, l’utilizzo di materiali biodegradabili o rigenerati.
Un esempio lo fornisce Equipolymers, una società che produce PET per diverse applicazioni denominata Viridis 25, contenente fino al 25% di materia rigenerata e, quindi, in linea con la Plastic Strategy dell’Unione Europea circa l’utilizzo del materiale riciclato all’interno delle nuove produzioni. Messa a regime, questa soluzione sarà in grado di assorbire 30 tonnellate di PET rigenerato, circa il 3% di quello disponibile oggi in Europa[1].
È proprio dal packaging, quindi, che si può ripartire per elaborare una nuova strategia di consumo responsabile ed etica che guardi al medio-lungo periodo prevendendo quelli che sono i problemi contestuali e anticipandone le soluzioni.
Interessante, in questo senso, il confronto tra Repubblica e H-Farm svolto alla Fondazione Feltrinelli di Milano dal nome Talks on Tomorrow, in cui si fa un focus sull’imballaggio del futuro e sulla sostenibilità ambientale, e dove si legge il professore associato di Scienza e Tecnologia dei materiali presso il Dipartimento di Ingegneria civile, chimica, ambientale e dei materiali dell’Università di Bologna Paola Fabbri spiegare che “quando un’azienda si rivolge a noi chiedendoci nuovi materiali per il packaging, ci informano naturalmente anche su quale materiale usavamo prima. Alla domanda, perché utilizzavano proprio quello, la risposta è quasi sempre la stessa: il fornitore ci ha suggerito che quel materiale per il packaging era il migliore sul mercato. La verità è un’altra e riguarda un po’ tutti gli attori in campo: i quali, in modo generalizzato, hanno poco conoscenza dei nuovi materiali in circolazione che ad esempio risparmiano materie prime fossili, che possono essere ottenuti da fonti rinnovabili oppure che sono più facilmente riciclabili”.
È un falso mito quello che ci illude di poter arrivare ad una società a zero waste, e cioè senza rifiuti, nel breve periodo e senza i necessari investimenti, ma ci si può avvicinare il più possibile “sviluppando una simbiosi industriale che può verificarsi solo attraverso la collaborazione tra filiere diverse”, come ci spiega Carlo Alberto Pratesi, professore ordinario di Marketing, Innovazione, Sostenibilità presso l’Università di Roma Tre. “Purtroppo, le nostre filiere sono abituate invece a guardare solo il loro settore, [mentre dovremmo] traguardare il concetto di associazione di categoria, allargandolo alle associazioni di categorie che inglobino le diverse filiere in campo”, continua lo stesso Pratesi.
Per questo motivo tutto si gioca sul ruolo della grande distribuzione, come afferma anche Roger Botti, il direttore generale e creativo di Robilant & Associati, società che si occupa della cura e del design di packaging della grande industria (con uno sguardo sia al marketing che, naturalmente, alla sostenibilità). Secondo lui, infatti, “un packaging professionale e l’uso di imballaggi personalizzati e brandizzati nella vendita è di fondamentale importanza per aumentare la reputazione di un marchio, l’immagine aziendale e la fidelizzazione da parte del cliente. Però, non possono essere solo i consumatori a creare il cambiamento. Perché chi governa il mondo dei consumi è la grande distribuzione che può e deve guidare gli sforzi dei clienti e delle aziende fornitrici”. Un passo che ha compiuto, ad esempio, il gigante Walmart, che è “intervenuto sugli imballaggi delle referenze a marchio, private label, perché è principalmente in quelle categorie di prodotti che può concretamente educare il cliente e costringere le aziende fornitrici a migliorare”, spiega lo stesso Botti[2].
È per questo motivo che si richiede un impegno concreto da parte delle aziende nel mettere fine alla produzione e alla immissione sul mercato di materiali che si sa già che finiranno per accumularsi nella complessa saturazione della filiera. Certi che, data l’ormai affermata presa di coscienza da parte degli individui circa quest’emergenza globale, sarà lo stesso mercato a premiarle e a dargli il giusto riconoscimento in termini di immagine e, di conseguenza, di fatturato.