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15 maggio, 2019

Il recupero energetico dai rifiuti

Come mi è capitato di scrivere già in diverse occasioni, il recupero energetico dai rifiuti potrebbe venire in soccorso di due problemi molto concreti, quali quello del loro aumento esponenziale a livello globale e quello, più stringente, della tutela dell’ambiente. Il settore riguardante la loro gestione, di conseguenza, si propone come uno tra i più prolifici e in costante crescita.

Per questo motivo gli stessi strumenti e tecnologie utilizzate all’interno dei siti di gestione dei rifiuti diventano sempre più innovativi e rispettosi dell’ambiente, un’attenzione anche maggiore quando parliamo di termovalorizzatori e di impianti per la valorizzazione energetica del biogas.

Innovazione che si deve ad una ricerca interdisciplinare, capace di inglobare saperi che vanno dalla chimica alla fisica, dalla biologia all’ingegneria ambientale, e che consentono di trattare i rifiuti nei termovalorizzatori con una combustione differente in base alla loro tipologia.

Le modalità impiegate nella maggior parte dei casi vanno quindi dagli ordinari forni a griglia (come quello di REA Dalmine), dove i rifiuti, posti sopra una griglia fissa o mobile, vengono iniettati con quantità controllate di aria al fine di portarli alla combustione, ai forni a letto fluido (come l’impianto LGH di Parona), che invece vengono spesso utilizzati per i rifiuti già trattati in precedenza e triturati ad una pezzatura molto fine. In questi secondi impianti i rifiuti subiscono gettate d’aria, in sospensione su un letto sabbioso, così che si mantenga un continuo scambio termico e si possano bruciare in maniera più omogenea.

La stessa cura di trattamento è riservata alla produzione di biogas, oltre che naturalmente per le attività di compostaggio, dove vengono scientificamente predisposti processi e ambienti atti all’ottimizzazione della fermentazione.

Ma non si ottiene gas soltanto in maniera spontanea e naturale, poiché è possibile generarlo dai rifiuti anche attraverso un processo di sintesi. Il cosiddetto syngas che deriva dai processi di pirogassificazione può avere diverse composizioni (nella maggior parte dei casi soprattutto idrogeno, monossido e biossido di carbonio e metano), ma ognuna di queste è utile per la produzione di energia elettrica, come nel caso dell’alimentazione delle turbine a gas interne ai cicli di cogenerazione, così come può essere trattata una seconda volta con il fine di trasformarsi in biocombustibile.

Il suddetto processo può avvenire mediante l’utilizzo della pirolisi, una tecnologia che lavora i rifiuti in assenza di ossigeno mediante temperature che vanno dai 400 agli 800 °C, e interessa in particolar modo i materiali ricchi di cellulosa e lignina e poveri di acqua. Oltre al gas, infatti, dalla pirolisi si ottengono residui liquidi (tar o olio di pirolisi, utilizzabile come combustibile) e solidi che possono essere raffinati per produrre carboni attivi, materiali, questi ultimi, estremamente porosi e capaci quindi di fare da filtro ai fluidi per trattenere numerose molecole inquinanti.

Il modo per ricavare energia dai rifiuti non si esaurisce nemmeno nel momento in cui una discarica controllata esaurisce lo spazio a disposizione autorizzato e quindi viene definitivamente chiusa. L’interrato, infatti, prosegue con la sua generazione spontanea di biogas e percolato per molti anni dopo l’abbancamento. Per percolato si intende il liquido proveniente dalla decomposizione della materia organica mista alle infiltrazioni acquifere nella massa dei rifiuti, un flusso che richiede a monte una progettazione seria di sistemi di drenaggio e di raccolta che lo dirigano verso appositi impianti dove trattarlo. Oltre a questi sistemi, naturalmente, sarà indispensabile per i siti aver a disposizione pozzi di captazione dei gas autogenerati.

L’incremento di utilizzo del biogas derivante dalla fermentazione dei rifiuti organici, così come quello dei residui agricoli come alghe e specie vegetali, può essere una delle chiavi fondamentali per provvedere al nostro fabbisogno di combustibili senza dover ricorrere obbligatoriamente alla soluzione fossile.

Si tratta poi di materiali in grado di ridurre il loro impatto inquinante perché derivati da risorse organiche e rinnovabili, oltre che, naturalmente, di eliminare il problema della sottrazione di terreni agricoli e dell’utilizzo delle risorse idriche necessarie[1].

È per questo motivo che anche in Italia ci stiamo pian piano rendendo conto dei benefici che una gestione limpida e responsabile dei rifiuti può apportare al nostro ambiente e alla nostra economia, e si stanno facendo dei passi in avanti verso la risoluzione di un problema che ha causato diverse difficoltà ai nostri territori e alle relative amministrazioni.

È il caso del recente accordo siglato tra Cassa Deposito e Prestiti e la Japan Bank for International Cooperation in occasione del meeting tra i vertici finanziari dei 20 Paesi più industrializzati (cd. D20), un traguardo che si spera permetterà alle nostre imprese di aumentare la loro competitività sia interna che estera. Questo cosiddetto Memorandum of Understanding (MOU) siglato tra Massimo Tononi, presidente della CDP, e Tadashi Maeda, governatore della JBIC, si propone come una promettente opportunità di business e accordi commerciali mirata alle aziende italiane e a quelle giapponesi che potranno usufruirne anche in paesi terzi.

Interne a questa cooperazione vi sono una serie di tematiche quali le infrastrutture come ferrovie, strade, porti e aeroporti, il settore dell’agroalimentare, le risorse naturali e la branca chimica farmaceutica. Ma vi è anche la questione dell’energia, con un focus specifico sulla rinnovabile e sull’investimento sui termovalorizzatori. Più in generale, si tratta di programmi e progetti di partenariato imprenditoriale in grado di condividere i rispettivi know how e le eccellenze così da allargare il loro operato a nuovi mercati geografici.

Inserito all’interno del Piano Industriale 2019-2021, quindi, questo accordo si lega alla collaborazione stilata nel luglio dello scorso anno tra il Giappone e l’Unione Europea con la firma dell’Economic Partnership Agreement e dello Strategic Partnership Agreement con l’obiettivo di implementare il commercio e gli investimenti tra questi due Paesi e, allo stesso tempo, contribuire ad uno scambio sinergico di competenze e di sviluppo operativo. “Il primo obiettivo della nostra partnership sarà promuovere la futura collaborazione tra aziende giapponesi e italiane attraverso il co-finanziamento di progetti in settori in cui l’Italia e il Giappone rappresentano eccellenze a livello mondiale, comprese le infrastrutture e le energie rinnovabili. Inoltre, considerando il grande impegno di CDP nella promozione di progetti sostenibili non solo dal punto di vista socio-ambientale, ma anche da quello finanziario, riteniamo che la collaborazione con JBIC rappresenti un importante passo in avanti in questa direzione[2], è stato il commento del presidente CDP Tononi, che ha poi ribadito come l’Ente speri per primo in un rilancio del settore dei rifiuti attraverso uno stimolo all’industrializzazione mediante interventi adeguati, “mitigando il rischio di sottoutilizzazione degli impianti e garantendo una maggiore omogeneità sul territorio[3].

Marco Sperandio